Confezionato male. Programmato peggio

Un robot in cartone di polistirolo pronto ad essere testato prima di essere messo in vendita. L’efficienza tecnologica lascia spazio al più umano dei disastri.

Nel panorama della commedia italiana degli anni ’80, ci sono scene che restano nella memoria collettiva non tanto per la trama, quanto per l’impatto visivo e la carica comica. Una di queste è senza dubbio quella in cui Paolo Villaggio, nei panni di un improbabile robot, emerge da una confezione di polistirolo all’interno di un grande ufficio. Siamo in “Grandi Magazzini”, film corale del 1986 diretto da Castellano e Pipolo, dove l’assurdo è all’ordine del giorno.

Il personaggio di Villaggio è quello di un tecnico, incaricato di presentare un nuovo robot progettato per aiutare il personale nel reparto informatica. Solo che il robot è lui. Letteralmente. Chiuso in una scatola blu metallizzata, con movenze meccaniche e un vocabolario limitato, si aggira tra scrivanie e colleghi con l’aria spaesata di chi ha capito di aver accettato il lavoro sbagliato.

Il momento più iconico della scena arriva con il famigerato “Dito no!”, pronunciato da Villaggio con voce metallica ogni volta che qualcuno cerca di toccarlo. È un’escalation di assurdità che culmina con l’incapacità del robot di compiere qualunque attività utile, rendendo l’intera dimostrazione un disastro completo. Il tono è quello tipico della comicità surreale di Villaggio: un mix tra disperazione, assurdità e satira sul mondo del lavoro.

“Grandi Magazzini” è un film corale, costruito su una serie di episodi indipendenti che ruotano intorno a uno stesso luogo: un centro commerciale. Villaggio è solo uno dei tanti grandi nomi presenti — accanto a lui troviamo Christian De Sica, Massimo Boldi, Lino Banfi, Enrico Montesano e molti altri — ma la sua breve apparizione riesce comunque a restare tra le più memorabili.

Il film rappresenta una fotografia perfetta dell’Italia degli anni ’80: consumismo, nuove tecnologie, mode effimere e una comicità che gioca sui cliché dell’epoca. La scena del robot, in particolare, è una parodia delle grandi promesse tecnologiche: invece di un androide efficiente, ci ritroviamo con un impiegato travestito male che non sa nemmeno camminare dritto.

Anche in Giappone, patria dell’animazione e dei robot per eccellenza, la figura del “robot fallato” ha una lunga tradizione. In anime come “Dr. Slump” o “Patlabor”, non è raro trovare automi che, invece di semplificare la vita, finiscono per complicarla con comportamenti bizzarri o limiti strutturali. L’omaggio visivo in stile anime che rappresenta questa scena si rifà proprio a quell’immaginario: un robot goffo, costruito con poco budget ma con tanto cuore, nel posto sbagliato al momento sbagliato.

L’uso del blu metallizzato, i movimenti rallentati e innaturali, le risposte preconfezionate: tutto concorre a creare un momento di ilarità che supera la semplice gag. È una riflessione, neanche troppo velata, sull’inadeguatezza dell’essere umano davanti al progresso. E Villaggio, con la sua maestria, riesce a far ridere e pensare nello stesso istante.

A quasi quarant’anni di distanza, quella scena non ha perso nulla della sua forza. Anche oggi, nell’era dell’intelligenza artificiale e dei robot umanoidi, l’idea di affidarsi a una “macchina” che in realtà è solo uno come noi con una scatola addosso, continua a far ridere. Perché alla fine, come ci ha insegnato Villaggio, siamo tutti un po’ confezionati male. E programmati… peggio.

a volte basta un costume, un bambino curioso e un ufficio grigio per raccontare la condizione umana meglio di qualsiasi monologo teatrale.