Tre uomini in maglia azzurra, una coppa tra le mani e una fuga memorabile. Non è il finale di un mondiale, ma quello di una delle commedie più esilaranti del cinema italiano. E stavolta, hanno davvero vinto tutto. O quasi.
È difficile dimenticare la scena finale di “Scuola di Ladri”, il film del 1986 diretto da Neri Parenti che ha unito per la prima volta tre giganti della comicità italiana: Enrico Maria Salerno, Massimo Boldi e Paolo Villaggio. Eppure, il momento più inaspettato — e per certi versi surreale — arriva proprio negli ultimi istanti della pellicola: tre ladri improvvisati, in maglia da calciatore, che esultano con in mano la Coppa del Mondo. Il tutto, ovviamente, dopo l’ennesima truffa andata (quasi) a buon fine.
In quella scena, ripresa come se fosse una diretta televisiva, vediamo i tre protagonisti in versione “campioni”, felici, impacciati, perfettamente fuori posto. È il colpo di scena perfetto: assurdo, grottesco, eppure coerente con la logica interna del film, dove tutto è possibile, soprattutto se a raccontarlo è la comicità slapstick all’italiana. Dopo una lunga serie di goffaggini, piani sbagliati e fughe rocambolesche, i nostri “eroi” si ritrovano con il trofeo più ambito tra le mani. Forse rubato. O forse guadagnato con la furbizia che solo i veri fuoriclasse del raggiro possiedono.
Paolo Villaggio interpreta Dalmazio, il più svampito e tenero del trio. Boldi è Egisto, il più ingenuo e casinista. E Salerno, in un ruolo comico lontano dalle sue solite interpretazioni più serie, è Aliprando, il “mentore” che tenta di mettere ordine tra i due nipoti disastri. Il film è una commedia degli equivoci, un carosello di travestimenti, tentativi di furto, pasticci, traviature e piccoli momenti di umanità nascosti tra le gag.
La loro vittoria finale, ironicamente messa in scena come se fossero appena diventati campioni del mondo, è una delle più riuscite parodie del mito calcistico italiano. E vederla oggi, trasposta in stile anime, fa ancora più effetto. L’illustrazione richiama i toni accesi di “Capitan Tsubasa”: linee di movimento esagerate, pose eroiche, sfondo dinamico. I tre uomini — un po’ impacciati, un po’ fieri — sembrano usciti da un episodio epico, ma al posto della gloria sportiva portano con sé solo furbizia, amicizia e una coppa forse non del tutto meritata.
Nel mondo anime, non è raro trovare squadre improbabili che raggiungono la vittoria contro ogni previsione. In un certo senso, anche i tre protagonisti di “Scuola di Ladri” fanno parte di quella tradizione: eroi per caso, campioni della truffa, ma sempre e comunque irresistibili. Il calcio, così sacro per gli italiani, viene qui reinterpretato come terreno perfetto per un colpo finale, quasi una “consacrazione” grottesca di una carriera da criminali pasticcioni.
“Scuola di Ladri” è stato un enorme successo al botteghino, tanto da generare un seguito due anni dopo. E sebbene il secondo capitolo non abbia raggiunto lo stesso livello di originalità, la trilogia di momenti comici legati al trio resta un punto fermo della commedia italiana degli anni Ottanta. La forza del film è nella capacità di raccontare l’assurdo con naturalezza, di far affezionare lo spettatore a dei personaggi che, in altri contesti, sarebbero solo dei ladri da disprezzare.
Ma qui no. Qui si tifa per loro. Anche quando rubano una coppa. Anche quando la alzano al cielo tra urla di esultanza, in mezzo a un campo sportivo che non hanno mai meritato. Perché alla fine, in una commedia come questa, vincere non è questione di regole. È questione di stile.

