Un parcheggio, un vespone bianco, e un uomo che non passa certamente inosservato. Con una calma surreale e un tempismo perfetto, entra in scena uno dei personaggi più iconici della comicità italiana anni ’80.
Certe entrate non si dimenticano. E quella di Severino Cicerchia in “Il ragazzo di campagna”, interpretato da un esilarante Massimo Boldi, è una di quelle che restano impresse nella memoria collettiva. Scende dal vespone con una lentezza quasi solenne, accompagnata da un effetto sonoro inequivocabile: una sonora e prolungata flatulenza. Siamo davanti a una scena volutamente grottesca, eppure calibrata con una maestria che solo la comicità fisica dell’epoca riusciva a ottenere.
Il film, uscito nel 1984 e diretto da Franco Castellano e Giuseppe Moccia (in arte Castellano e Pipolo), racconta la storia di Artemio, un contadino della Lomellina che decide di trasferirsi a Milano per cercare fortuna. Ad accoglierlo nella grande città c’è suo cugino Severino, che vive immerso nella modernità e nelle mode assurde degli anni ’80. Il contrasto tra i due è immediato: da una parte l’ingenuità genuina, dall’altra la superficialità metropolitana più sfrenata.
La scena del parcheggio è un manifesto in miniatura del personaggio di Severino: sicuro di sé, cafone, sempre sopra le righe. Il vespone — non un semplice motorino, ma un mezzo importante, quasi status symbol — viene cavalcato come un destriero urbano, e l’arrivo è segnato da un gesto tanto inaspettato quanto perfettamente aderente alla poetica del personaggio. Non è solo una gag volgare: è una dichiarazione d’intenti.
Il film è una delle più riuscite commedie di quell’epoca, capace di mescolare l’umorismo slapstick con una satira sociale leggera ma efficace. Il personaggio di Artemio, interpretato da Renato Pozzetto, è il cuore emotivo del racconto, ma Severino rappresenta il contraltare perfetto: uno specchio deformato della modernità, spesso più caricatura che persona, ma sempre irresistibile.
La scena del vespone ha assunto nel tempo uno status quasi leggendario. Non a caso, è diventata oggetto di meme, imitazioni e citazioni. Il tono è volutamente esagerato, come tutto il film, ma è proprio questa esagerazione a renderlo così memorabile. Boldi, in uno dei suoi ruoli più ispirati, riesce a trasformare un momento potenzialmente triviale in un piccolo classico della comicità italiana.
Curiosamente, anche nella cultura giapponese esiste una certa affinità con questo tipo di comicità grottesca e surreale. In anime come “Gintama” o “Osomatsu-san”, non è raro trovare personaggi sopra le righe, capaci di rompere ogni convenzione sociale con comportamenti assurdi ma umanissimi. L’uso dell’imbarazzo come arma comica, la volontà di mostrare il ridicolo nel quotidiano, sono elementi comuni anche se distanti geograficamente.
L’illustrazione in stile anime che immortala questa scena rende perfettamente l’atmosfera: il vespone ben piantato al centro dell’inquadratura, Severino che scende con quella sua espressione di finto distacco, mentre il resto del mondo sembra ignorare l’assurdità di quanto sta accadendo. È un momento di perfetto non-sense, reso ancora più efficace dall’estetica pulita e dettagliata dell’animazione giapponese.
“Il ragazzo di campagna” è, in fondo, un film sull’identità. Sull’essere fuori posto, sull’adattarsi a un mondo che cambia troppo in fretta. E anche se il focus resta su Artemio, il personaggio di Severino è un piccolo capolavoro di scrittura e interpretazione. La sua entrata in scena, rumorosa e teatrale, è uno di quei momenti che definiscono non solo un personaggio, ma un’epoca intera della comicità italiana.

